Storie – Luciano Zamboni

luciano zamboni

Ricostruzione di Roberto Zamboni

Sul muro che fiancheggia il lungo viale che porta al camposanto del mio paese, s’intravedono, nascoste dall’edera, cento piccole lapidi. Ognuna di queste riporta il cognome, il nome e il grado, dei soldati che morirono durante i due conflitti mondiali. Le prime cinquantacinque sono dedicate a coloro che persero la vita durante la Grande Guerra, le rimanenti, a tutti quelli che, arruolati nel Regio Esercito, perirono tra il 1940 e il 1945. Le ultime sedici portano sul fondo l’incisione «Disperso». Ed è proprio su quella adiacente all’entrata del cimitero che, il due di novembre, giorno della commemorazione dei defunti, mia nonna si fermava e deponeva un fiore.

 lapide montorioLapide nel cimitero di Montorio Veronese

Vedersi portar via un figlio poco più che ventenne, per poi scoprire che è morto di stenti e maltrattamenti in un campo di concentramento, è sicuramente una cosa terribile.

Non avere una tomba su cui piangerlo, è difficilmente sopportabile.

Ma se la causa di ciò è dovuta ad una presunta «ragion di Stato», il tutto diventa inaccettabile.

Luciano, figlio di contadini e primo di quattro fratelli, era nato il 3 febbraio 1923 a Trezzolano di Mizzole, un paesino nella provincia di Verona. Negli anni ’30 si era trasferito, con i genitori, la sorella e i due fratelli, a Montorio, al numero sette di Via dei Platani. Nato e cresciuto con il fascismo aveva subito passivamente la dittatura, adattandosi come la maggior parte degli italiani alle regole dettate dagli uomini con la camicia nera.

Dopo la caduta del regime, il 25 luglio 1943, la successiva firma dell’armistizio dell’Italia con gli anglo-americani, e la nascita della Repubblica di Salò, anche a Verona avevano ripreso a funzionare gli uffici di leva.

Il 9 novembre 1943 fu pubblicato il primo ordine di chiamata alle armi. L’obbligo di presentazione presso il distretto militare era indirizzato alle classi 1923, 1924 e 1925.

La tranquillità in casa Zamboni fu incrinata, in quel novembre del 1943, dall’arrivo della cartolina precetto che intimava a Luciano di presentarsi per il richiamo alle armi. La drammaticità della cosa stava proprio nello stabilire cosa fare. Migliaia di giovani con quella cartolina in mano, si trovarono a dover prendere delle decisioni non facili. La loro sorte e quella dei propri familiari sarebbero dipese dalle loro scelte. La maggioranza di coloro che si costituì, lo fece per timore di ritorsioni verso i propri cari. Infatti, i genitori o i fratelli dei renitenti alla leva potevano essere arrestati e trattenuti come ostaggi. Questo status li metteva nella condizione di poter essere fucilati in caso di rappresaglia. In seguito sarebbe stata pubblicata un’ordinanza (1o Bando Graziani) che prevedeva per renitenti e disertori la pena di morte mediante fucilazione, da eseguirsi, come recitava l’articolo cinque del bando, nel luogo stesso di cattura del disertore o nella località della sua abituale dimora.

Alle parole seguirono i fatti. Così anche nel veronese si venne a conoscenza di fucilazioni di giovani che avevano tentato di sfuggire alla chiamata o che dopo essersi arruolati avevano disertato. In quel periodo ci fu chi si arruolò volontario nel neonato Esercito di Salò cercando la «bella morte», chi si diede alla macchia aggregandosi ai gruppi partigiani, chi disertò tentando di sottrarsi in tutte le maniere all’arruolamento coatto, e chi passivamente non fece nulla e mise la propria vita in mano agli eventi e al fato. Ognuno fece le scelte che reputava più giuste e pagò di conseguenza.

Luciano decise di presentarsi e nel gennaio del 1944 fu inviato al Centro Addestramento Aeronautico di Sacile (Pordenone). Dopo alcuni mesi fu trasferito alla Caserma Aeronautica di Casarsa (3ª Compagnia – 3° Plotone – 10ª Squadra), e infine al 14° Centro Avvistamento (Posta da Campo n. 765) presso Firenze, da dove disertò, giungendo a Verona dopo aver percorso buona parte della strada a piedi. Era il giugno del 1944 e per più di due mesi rimase nascosto presso la casa di uno zio.

A causa delle accanite ricerche da parte dell’Ufficio di Polizia Investigativa di Verona (U.P.I.), alla fine di settembre si vide costretto a farsi assumere alla Todt, l’organizzazione tedesca che provvedeva alla costruzione di fortificazioni e sbarramenti e che dava da lavorare a chiunque ne facesse richiesta, fosse questo un renitente, un disertore o uno sbandato. In questa maniera riuscì così ad ottenere l’esonero militare.

Fu inviato sul Monte Altissimo di Nago, a nord del Lago di Garda, e fu impiegato nella costruzione di trincee e opere di difesa militare.

Il 26 novembre 1944, dopo aver chiesto un permesso per far visita alla famiglia che gli venne negato, decise di tornare a casa abbandonando il posto di lavoro. Purtroppo venne intercettato da una pattuglia della polizia tedesca, arrestato ed imprigionato, prima nel forte di San Mattia, che era uno dei tre forti costruiti dagli austriaci nel 1838 sulla collina veronese e che i nazifascisti, nel periodo repubblicano, avevano adibito a prigione, e poi nelle celle del Palazzo INA dove aveva sede il Comando Generale SS e Polizia di Sicurezza (Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des Sicherheitsdienst – B.d.S Italien), per poi essere trasferito, il 12 gennaio 1945, al Campo di concentramento di Bolzano, in località Gries.

La mattina del 19 gennaio, Luciano e altri 358 prigionieri furono caricati su camion e portati alla stazione ferroviaria di Bolzano dove li attendeva un treno merci, scortato da militi SS e polizia altoatesina, che aveva come destinazione finale il Campo di concentramento di Flossenbürg.

Era il pomeriggio del 23 gennaio 1945 e dai vagoni oltre ai vivi furono scaricati anche una decina di morti.

Mio zio, con gli altri prigionieri, fu fatto scendere e avviato a piedi verso il campo di concentramento che si trovava a qualche chilometro più in alto rispetto alla stazione ferroviaria. All’arrivo nel lager, dovette subire la procedura standard prevista per ogni deportato. Fu spogliato di ogni avere, dei vestiti e della dignità, rapato, rasato e lavato. Gli venne fornito il vestiario e, trasferito al blocco 20, immatricolato. Luciano ebbe il numero di matricola 43738 e il triangolo rosso con la «I» nera che lo classificava come prigioniero politico italiano.

Flossenbürg era un campo di concentramento «principale», dal quale i deportati erano smistati in sottocampi, detti «Kommandos», per essere impiegati nei lavori più svariati.

Dopo il periodo di «quarantena», vale a dire l’intervallo che precedeva il decentramento, che era di alcune settimane, generalmente i prigionieri venivano inviati ai sottocampi, ma Luciano fu trattenuto a Flossenbürg. Chi rimaneva, era utilizzato in attività interne al campo o impiegato in lavori di scavo o di fatica all’esterno del lager e principalmente presso la famigerata cava di granito.

Il 22 marzo fu trasferito al lager di Natzweiler (Alsazia) e decentrato presso il sottocampo di Offenburg.

Proprio in quel periodo i Kommandos esterni di Natzweiler furono evacuati a causa dell’avanzata delle truppe alleate.

Quasi tutti gli internati, a piedi o in treno, furono trasferiti a Dachau.

Luciano, assieme ad altri prigionieri, fu riportato a Flossenbürg, dove arrivò il 6 aprile.

Far intraprendere un viaggio così lungo a dei deportati che si trovavano già da due mesi in campo di concentramento in quel periodo della guerra, cioè quando le condizioni nei lager erano diventate disastrose, voleva dire quasi certamente condannarli a morte.

Mio zio dovette affrontare nel giro di quindici giorni il tragico trasporto di quasi 900 chilometri, che lo portò da Flossenbürg a Natzweiler e ritorno.

Posso solo immaginare quali fossero le sue condizioni al rientro. Fu sicuramente questo il motivo per il quale non partecipò all’evacuazione del campo, la cosiddetta «marcia della morte».

Il 20 aprile 1945, il comandante del campo di Flossenbürg, l’SS-Obersturmbannführer Otto Max Kögel, ordinò l’evacuazione e i 14.800 prigionieri in grado di camminare, furono incolonnati e avviati a piedi verso sud con destinazione il Campo di concentramento di Dachau.

Dei 1.526 internati che rimasero nel lager, (tra questi anche 46 italiani, compreso mio zio), circa la metà era ammalata di tubercolosi o di tifo e gli altri, a giudizio dei carnefici nazisti, con un piede già nella fossa, non avrebbero vissuto abbastanza da vedere i loro liberatori.

Luciano era ancora vivo quando, la mattina del 23 aprile 1945, una compagnia della 97ª Divisione di Fanteria dell’Esercito americano liberò il Campo di concentramento di Flossenbürg.

Il 4 maggio, dodici giorni dopo la liberazione del lager, mio zio morì. Morì da uomo libero e sicuramente circondato dall’affetto e non dall’indifferenza com’erano morti a migliaia nei mesi precedenti i suoi compagni di prigionia.

Parte dei deceduti dal 23 al 30 aprile furono cremati. Molti furono sepolti in fosse comuni nel territorio occupato dal campo di concentramento.

Lo stesso giorno in cui morì mio zio, nel cimitero del paese di Flossenbürg, furono inumate le prime 21 salme di prigionieri che sopravvissero alla liberazione ma che poco dopo spirarono a causa delle vessazioni subite. Su ognuna delle 120 tombe che alla fine accolse quel cimitero fu apposta una piccola lapide col nome dell’ex deportato defunto.

Il 12 marzo 1958 i resti di quattro deportati italiani furono trasferiti dal cimitero del paese di Flossenbürg al Cimitero Militare Italiano d’Onore a Monaco di Baviera su ordine del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in Guerra. Uno di questi quattro italiani era Luciano.

Della traslazione dei resti i miei parenti non furono mai avvisati.

 crematorio flossenburg30 aprile 1945 – Il forno crematorio del lager di Flossenbürg dopo la liberazione
(foto gentilmente concessa per la pubblicazione dal Professor Dr. Paul Kopperman dell’Oregon State University)
liberazione flossenburgLiberazione del Lager di Flossenbürg
(foto gentilmente concessa per la pubblicazione dal Professor Dr. Paul Kopperman dell’Oregon State University)
 sepolture a flossenburg4 maggio 1945 – Preparazione di bare e croci per le prime sepolture nel Cimitero Comunale di Flossenbürg
(foto gentilmente concessa per la pubblicazione dal Professor Dr. Paul Kopperman dell’Oregon State University
libro matricola floss. zamboniPagina del libro matricola di Flossenbürg
lapide monaco zamboniCimitero Militare Italiano d’Onore di Monaco di Baviera (1994)
adige 1945 zamboni«La Voce dell’Adige» del 22 giugno 1945

 

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