FRASSINELLI Edolo, nato il 1° novembre 1919 a Empoli (Firenze) 1a, 10 – Soldato – Internato nello Stalag VI C – Matricola 99319 – Deceduto presso lo Stalag VI A di Hemer/Hiserlon (Nord Reno Westfalia) il 17 luglio 1944 – Causa della morte: pleurite e meningite tubercolare – Inumato in prima sepoltura nel cimitero per gli italiani il 19 luglio 1944 – Posizione tombale: tomba n°23 2b – Esumato e traslato nel Cimitero militare italiano d’onore di Francoforte sul Meno (Germania) – Posizione tombale: riquadro P – fila 6 – tomba 9 2b . Fonti: 1a, 1b, 2b, 10 – Francesca Manenti (nipote).
Ricostruzione di Francesca Manenti
Purtroppo sono una delle ultime nipoti di Grandilio Guasti e Lina Frassinelli. Ultima figlia di una figlia mediana, quindi ho conosciuto, ma solo per poco, i miei nonni.
Mio nonno Grandilio morì che ero piccola e ho solo vaghi ricordi di questo bell’uomo con gli occhi azzurrissimi, quasi glaciali, che sorrideva lieto e soddisfatto alla vista dell’esuberante nipote paffuta che gli andava incontro alla discesa del treno.
Mia nonna invece la ricordo meglio. Morì che avevo quattordici anni.
Anche se abitavamo noi a Siena e lei vicino Empoli, nel suo paese natale Granaiolo-Fontanella, non ci vedevamo spesso, ma una volta all’anno ci veniva a trovare e stava da noi per una settimana.
Dormivamo insieme, nella mia cameretta. Sul suo volto di ottantenne si vedevano ancora chiare le tracce della sofferenza, della forza, dell’onore di una razza che non ha voluto cedere alla brutalità della guerra, alla fame, alla carestia venuta poi dopo il ‘45, ma che cantando e lavorando duramente nei campi, ha superato tutto questo.
Io sono grata e onorata di essere loro discendente.
Mia nonna era una donna silenziosa, parlava poco ma osservava molto da dietro i suoi occhi neri incavati, quasi magnetici, come si addice ad ogni nato sotto il segno dello Scorpione. Questo l’ho preso da lei.
Mi chiamava «Pandora», appellativo che spettava a tutte le nipoti dall’aspetto giunonico.
Mentre le altre, quelle magre, venivano chiamate «Fagiolo»: un dispregiativo in un epoca in cui essere in carne era una benedizione perché voleva dire mangiare: un lusso per pochi e un segno di buona salute.
Aveva la fronte alta e le sopracciglia finissime, non perché nata così ma perché per sfuggire alle pressanti lusinghe di un ufficiale delle SS, un giorno mise la testa dentro il forno acceso per bruciarsela tutta ed apparire brutta ai suoi occhi. Un gesto estremo, di disperazione, perché mio nonno si era rifugiato sulle colline pur di non farsi deportare e stare con mia nonna già madre di diversi figli.
La mia mamma, allora una bambina, era in cucina con lei quando si bruciò tutta e si emoziona ancora nel raccontarlo. Era sempre con lei nella cucina della casa dove erano sfollati quando le SS, come ultimo atto di insulto prima di andarsene, fecero razzia nelle case per portare via tutto e lasciare la popolazione senza mariti o figli, beni, cibo, ecc…
Mia nonna affilava i coltelli nel lavandino perché se avessero toccato una delle sue figlie, o il marito malato di tifo nel letto, lei non avrebbe esitato ad infilzarne qualcuno.
Lina aveva il rispetto e l’amore dei suoi figli perché gestirne così tanti durante la guerra, e dopo, non dev’essere stato facile.
Ma lei era forte e tutto questo non passa, neppure negli occhi di una ottantenne che vedevo fare l’uncinetto a una velocità impressionante mentre guadava Beautifull, non perdendosene una battuta.
Lei ha sempre raccontato poco della guerra, eppure ne aveva viste di cose.
I racconti di famiglia sulla guerra, gli orrori, le amicizie, gli slanci di aiuto che oggi sembrano essere Caduti nel dimenticatoio in un epoca in cui questi stessi racconti sembrano roba di altri tempi, io li ho vissuti attraverso gli occhi di due bambini, in quanto i miei genitori avevano l’uno 15 anni (mio padre) e l’altra 9 (mia madre).
Per loro era quasi un gioco: sentire le sirene che annunciavano gli aerei, fuggire nei campi, stendersi e contare il numero degli aerei che sfilavano sopra il capo, tra le nuvole.
Uno di quelli aerei tedeschi bombardò per prima la casa dei miei nonni Grandilio e Lina, rimasti vivi insieme ai figli perché erano fortunatamente tutti fuori casa.
Quindi i racconti di guerra per me sono stati i loro racconti. Ma una cosa che mi diceva mia nonna, però, me la ricordo bene.
Era come il tema di fondo che la nonna Lina ripeteva spesso: «I Savoia? Sieh, prima di ritornare il Italia devono passare sul mio corpo. Prima fanno ritornare mio fratello da chissà dov’è e poi se ne può parlare!».
Era il 1986 quando lei è morta per cause naturali. I Savoia fortunatamente non li ha visti tornare in Italia, ma purtroppo nemmeno suo fratello Edolo, morto in guerra, di cui aveva perso ogni traccia.
Gli era rimasta solo la lettera del cappellano militare che lo aveva assistito negli ultimi istanti della sua vita e che ne annunciava la morte per pleurite polmonite e meningite tubercolare, prigioniero in un campo di lavoro tedesco a Hemer (Iserlhon – Vestfalia).
Eh si, l’amato fratello! Edolo Frassinelli, detto Edo.
Io l’ho visto solo nella foto che riporto qui come documento in memoria del suo sacrificio, vestito da militare.
Per altro mio fratello Claudio pare che gli assomigli molto – o almeno così diceva la mia nonna Lina. Entrambi alti, circa due metri, entrambi magrissimi.
Edo Frassinelli
Edo non partì volontario ma per adempiere agli obblighi di leva. Fece di tutto per non partire. Un coetaneo – sempre della famiglia – si sparò ad una mano e grazie a questo riuscì a non partire.
Edo invece tentò la via della febbre. Prese delle pasticche per cavalli – o almeno così ci raccontava mia madre – con l’intenzione di farsi venire la febbre. Ma nulla! La struttura solida e la buona salute di allora non gli fecero niente e dovette partire. Fu destinato in Jugoslavia.
Tra i pochi ricordi di mia madre c’è una lettera scritta nei primi anni della sua permanenza in cui presentava ai suoi genitori la fidanzata jugoslava. La mamma non ne ricorda il nome ma ricorda bene la foto: un gigante con accanto una bambina, tanto era alto lui e bassa lei. Poi più nulla fino al ’44, anno della sua morte.
C’è un racconto attorno alla sua morte che quando posso – e mia madre ha voglia – mi faccio sempre raccontare tanto è particolare.
Era vicino il decimo compleanno di mia madre, giorno di festa quindi in casa Guasti. La bisnonna Ida però si alza e si veste di nero. Mia nonna Lina gli disse: «Ma che fai mamma? Perché ti vesti così …» E lei rispose: «È morto Edo.»
Noi oggi fortunatamente non ce lo possiamo nemmeno immaginare il dramma di una madre con un figlio disperso in guerra.
La famiglia tutta le si strinse attorno per darle conforto e alleviare il brutto pensiero chi dicendo: «Ma no dai, vedrai che non è vero», altri: «Ma si, vedrai che torna»… Lei però ormai era convinta.
La notte aveva sognato i cavalli imbizzarriti, che si impennano sulle zampe di dietro, e questo nel linguaggio simbolico che spesso i sogni hanno è segno di parenti che muoiono.
Lei aveva avuto fratelli e/o zii morti nella guerra del ’15-’18 e tutte le volte che uno di loro era deceduto, lei aveva fatto quel sogno.
Ida era talmente convinta che vestì a lutto per quattro giorni di fila. Quando arrivò la lettera del decesso del figlio, proprio la notte del sogno, non si stupì molto. Da allora non si è tolta il lutto per tutta la vita.
Prima della sua partenza, lo zio Edo, regalò a mia madre una scatolina azzurra con un piccolo rosario dentro. Mia madre doveva fare a breve la sua prima comunione ed era uso fare simili regali, specialmente da parte degli zii. Poi scoppiò la guerra e per fare la comunione dovette attenderne la fine.
Oggi, 2012 – anno in cui scrivo -, lei ha 78 anni. La scatolina azzurra si è rotta da tempo ma nel portafoglio conserva ancora qualche grano di quel rosario e la croce, ormai annerita e consunta, che vi era appesa in fondo.