
MILIOZZI Umberto, nato il 10 ottobre 1908 a Petriolo (Macerata) 1a, 10 – Deceduto presso l’ospedale di Gelnhausen (Assia) il 4 settembre 1945 – Causa della morte: tubercolosi – Inumato in prima sepoltura nel cimitero di Gelnhausen 2b – Esumato e traslato nel Cimitero militare italiano d’onore di Francoforte sul Meno (Germania) 1a – Posizione tombale: riquadro C – fila 5 – tomba 40 1b . Fonti: 1a, 1b, 2b, 10 – Elìa e Marta Miliozzi (figlio e nipote).
Ricostruzione di Marta Miliozzi
Umberto Miliozzi era nato a Petriolo, in provincia di Macerata, da una famiglia di contadini petriolesi, il 10 ottobre 1908.
Era il primo di tre fratelli: lui, Mario ed Evelino, senza contare le quattro sorelle delle quali Giuseppa, Rosa ed Elisa nate prima di lui. I suoi genitori, Giulio e Teresa Morresi, persone irreprensibili e religiose, come ce n’erano una volta, lo avevano educato nel mestiere del contadino che eseguiva facendo tesoro degli insegnamenti del babbo e della mamma, dei quali se n’era fatto una regola di vita.
Umberto era persona ottimista: sempre allegro, sempre pronto allo scherzo, sempre di buon umore.
Era attorniato da molti amici con i quali, ogni domenica, passava lunghe ore giocando alle bocce, alla ruzzola o si recava a ballare portando con sé Natalina, sua sorella minore prediletta.
Raggiunta la maggiore età – allora 21 anni – ricevette la cartolina precetto per il servizio di leva.
Nel suo Libretto personale assegnatogli dal Comando militare si legge: «Chiamato alle armi e giunto il 26 aprile 1929. Assegnato al 4° Reggimento Artiglieria da Campagna – 2a Batteria».
Allora la ferma era di due anni per cui il suo congedo sarebbe dovuto avvenire nell’aprile del 1931. Ma nel suo Libretto personale non risulta questa annotazione.
In attesa di diventare Servitore del Re, aveva intanto adocchiato una deliziosa fanciulla di nome Adina che abitava nelle campagne loresi (di Loro Piceno), ma non è dato conoscere se avesse fatto in tempo a fidanzarsi con lei ed andarla a trovare in bicicletta, la domenica, prima di diventare soldato.
Chi scrive non può saperlo essendo una conseguenza di questo fidanzamento. Ma si presume di sì. Fatto è che la prima cartolina illustrata che egli ha spedito alla sua amata Adina, mandata da Pola, nell’allora italianissima penisola istriana, reca la data del 1° maggio 1929.
Finita la ferma nella primavera dell’anno 1931 si dedicò interamente alla sua famiglia e alla sua Adina diletta che sposò in Loro Piceno il giorno 28 ottobre 1934. Per tutto il tempo dei restanti anni 30 aveva ripreso l’attività consueta del lavoro dei campi alternandolo, nel periodo estivo, con mille altre attività fuori dell’ambito famigliare.
Ebbe così il tempo di dare la vita ai tre marmocchi, io [Elìa] il maggiore e i due piccoli Élia ed Enzo.
Non poteva immaginare, il babbo Umberto, che quell’ambizioso e sprovveduto di Mussolini si unisse a quel pazzo criminale di Hitler per dichiarare guerra al mondo intero.
Così, quel 10 giugno 1940, quando il Duce annunciò l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dei nazisti tedeschi, segnò l’inizio di una immensa tragedia che trascinò in una guerra assurda e altrimenti impensabile, migliaia di padri di famiglia come lo era Umberto stesso.
L’ultima volta che io vidi mio padre fu nel giugno 1943 quando, tornato a casa per una licenza agricola, ebbe la soddisfazione di inaugurare una falciatrice nuova fiammante che il padrone del fondo che coltivavamo – che ci voleva bene – aveva comperato per facilitarci il lavoro della mietitura.
Era stato destinato nel corpo Guardia costiera del basso Adriatico, nella zona di Lecce, in cui giunse, da richiamato il 12 dicembre 1942.
Il giorno 6 agosto, 1943, alle 3 del pomeriggio partì, insieme col suo contingente, per la città di Valence, nella Francia meridionale, in appoggio alle truppe tedesche impegnate su quel fronte.
Venne poi l’armistizio dell’8 settembre e le cose peggiorarono per mio padre Umberto e i suoi amici marchigiani. Ma non poteva raccontarlo alla famiglia senza incorrere nella ferrea censura del comando tedesco.
Da quel giorno eravamo diventati nemici della Germania: l’incauto Maresciallo Badoglio, che aveva sostituito il deposto Capo del Governo Mussolini, non si curò di mettere al sicuro le nostre truppe dalla conseguente rappresaglia tedesca, che, certo vi sarebbe seguita, ma pensò solo a salvare se stesso e il suo Re, col quale scappò a Brindisi l’indomani.
Seguì un lunghissimo silenzio epistolare che si interruppe con alcune lettere spedite dalla Germania nel mese di dicembre per fare alla sua cara consorte gli auguri per il Natale 1943.
Era stato fatto prigioniero e trasferito in un Lager tedesco della Germania occidentale.
Mangiava patate e barbabietole quando non era possibile spedirgli qualche pacco di pane nostrano e formaggio ed era costretto a fare legna nei boschi con qualsiasi temperatura.
Con un’ultima cartolina, datata 12 settembre 1944 in cui babbo Umberto spiega che partirà per andare a lavorare in un altro paese a 30 o 40 km di distanza, si interruppe il flusso della sua corrispondenza, fino allora piuttosto cospicua, e non se ne saprà più niente in assoluto, attraverso la comunicazione personale, della sua vita di prigionia.
Né lui ha mai lasciato trapelare i suoi disagi derivanti dal cattivo trattamento fisico-alimentare a lui riservato raccomandando agli amici che poterono tornare a casa dopo la Liberazione, di non fare parola sul suo pessimo stato di salute (un’influenza mal curata durava da mesi) per non allarmare i famigliari che a casa attendevano sue notizie.
Fino a quando l’arrivo di due lettere provenienti da interposta persona, che qui riportiamo, ha squarciato le tenebre e aperto la porta alle notizie tanto attese che, sinceramente, purtroppo, erano quelle che ci si aspettava».
Mombercelli, 02.11.1945
Caro amico Miliozzi, ti scrivo queste mie poche parole per farti sapere mie notizie. Io mi trovo a casa, ma non sono proprio guarito: ho sempre male alle gambe e non posso ancora lavorare come prima. Ti ricordi, Umberto, quando eravamo all’ospedale insieme, che eravamo solo tre? Io sono D. G., il Piemontese. Ti ricordi quando ti coprivo con la coperta prima di andare a dormire io? Mi dispiace che non ho potuto fare di più perché ero malato anch’io.
Caro amico, quel giorno che ti hanno trasportato all’altro ospedale io mi trovavo fuori; quando sono rientrato non ti ho più visto nemmeno potuto parlarti, né sapere dove ti avevano portato. Domandavo sempre al dottore tue notizie; lui diceva che non sapeva niente e così non ho mai più saputo niente di te: in questo momento desidererei molto di sapere tue notizie. Basta: mai più si credeva di venire ancora a casa dopo tanto tempo di avere sofferto. Tutte le qualità di sofferenze che si potevano immaginare noi le abbiamo sofferte! Dunque, adesso non pensiamo più al passato, pensiamo di stare allegri e tranquilli. Spero e credo che ti troverai a casa anche tu con la tua cara famiglia come mi trovo io.
Distinti saluti a te e alla tua cara famiglia; attendo una risposta. D. G. Domenico, […].
A questa lettera rispose mio zio Mario, facendo presente all’amico piemontese che suo fratello Umberto non era ancora rimpatriato, dimostrando molta apprensione ed ansietà.
Ed ecco la seconda lettera, di riscontro, dell’amico di Mombercelli.
Mombercelli, 22.11.1945
In questi giorni ricevetti la vostra cara lettera credendomi che fosse stata scritta da Umberto, ma invece no: eravate suo fratello. Sono stato molto dispiaciuto nel sapere che non è ancora a casa anche lui, oppure a un ospedale in Italia, come ce ne sono ancora tanti.
Dunque, caro Miliozzi, io posso darvi notizie di vostro fratello da quando il primo giorno ci siamo conosciuti fino a che ci siamo lasciati. Vostro fratello io l’ho conosciuto i primi giorni della Liberazione, in infermeria e ognuno contavamo il nostro passato, durante il tempo della prigionia. Umberto raccontava che aveva «fatto» un’ influenza trascurata da parecchi mesi; io, anche la mia malattia era stata un po’ trascurata, ma più leggera. Basta: dopo un po’ di giorni di infermeria si vedeva che lui non migliorava e l’hanno trasferito in un altro ospedale che non conosceva nemmeno lui dove lo avessero portato. E così non si sapeva più niente l’uno dell’altro dove eravamo. Dopo un mese anch’io e un altro italiano siamo stati portati via da là, ma non si sapeva dove si andava e in quale ospedale. Finalmente, dopo ore ed ore di viaggio, siamo arrivati in un ospedale in mezzo ai boschi deserti che non si vedevano altro che caprioli e falchi. Non si vedeva nessun italiano, tutti stranieri. A forza di girare per l’ospedale che era grosso come un paese e c’erano mille e mille persone ricoverate, a forza di chiedere all’uno o all’altro girando nei reparti abbiamo trovato un italiano solo, che era Umberto, vostro fratello. Era già da un mese che lui era là, solo, e non lo guardavano per niente, come mi ha raccontato lui e la malattia, a non curarla, aumentava: perché in quell’ospedale c’erano ancora i Tedeschi a comandare. Così siamo stati insieme un altro mese, ma io, a dire proprio la verità non lo vedevo mai migliorare, anzi peggiorava.
Mi dispiace darvi queste notizie, ma come mi dite, da quello che so finché sono stato insieme, posso dirvi che era in brutte condizioni.
Basta: dopo un mese, di nuovo, mi hanno portato in un altro ospedale; là si stava più bene: c’era un Comando americano, dottori americani e si mangiava secondo la cucina americana. C’erano cure, c’era di tutto. Ma Umberto stava sempre a letto, invece io ero quasi sempre per i boschi, in giro, perché mi sentivo un po’ più di forze.
Dopo circa venti giorni che eravamo lì, insieme, lui era sempre lo stesso; io gli domandavo sempre come stesse e lui diceva che non si sentiva bene per niente.
Dunque, vi posso dare le sue ultime notizie: io sono uscito fuori per un’ ora. Tornato dentro, lui non c’era più. Ho chiamato il dottore che mi ha detto di averlo mandato in un altro ospedale dove erano i professori per fargli l’operazione della pleurite. Dopo un mese io sono stato rimpatriato e così, di lui, non ho mai più saputo nulla. Appena avrete sue notizie fatemele sapere.
Distinti saluti e fatevi coraggio che presto potrà arrivare anche lui. Di nuovo saluti, D. G. Domenico.
Soldati in addestramento. Umberto è l’ultimo a destra
Nell’estate del 1945, dopo la resa della Germania, alcuni amici poterono tornare, lui no.
Era degente all’ospedale di Mercausen e in pessime condizioni di salute, come lo conferma il suo amico piemontese. Questi suoi amici, fra cui «Nené» P. di Colbùccaro (Corridonia), vennero a trovarci recando una sua foto.
Ci dissero che Umberto sarebbe tornato appena guarito. Ma il gonfiore del suo viso non ci rassicurava affatto.
Quello che ci conforta è che nonostante la fine che lo aspettasse, il suo volto non appariva per nulla sofferente.
Morì senza il conforto dei suoi amici, senza la consolazione di riabbracciare i suoi cari bambini e la sua consorte, in una terra ostile, il 4 settembre 1945.
Con nota 7009 del 15 giugno 1948 il Comando del Distretto Militare di Macerata ha pregato il comune di Petriolo di annullare il verbale di irreperibilità del militare Miliozzi Umberto di Giulio, classe 1908, perché il predetto militare, in base all’espresso raccomandata Numero 655490 / I.A. del 4 giugno 1948, risulta deceduto, il 4 settembre 1945 in prigionia, Germania, per malattia.
Elìa, Élia ed Enzo nell’estate del 1943, insieme con la mamma Adina