Ricostruzione di Ludovica Sestilli
Fin da piccola ho conosciuto la storia della famiglia di mio padre.
La madre, nonna Sarah, era ebrea, e come lei tutta la numerosa famiglia che viveva in varie regioni italiane, ma anche all’estero.
Da questa “colpa” stigmatizzata dalle leggi razziali, frutto di un’ideologia folle (e non, come erroneamente molti sono portati a credere, messa in piedi da un pazzo, accecato dall’odio per cui gli ebrei erano non una razza inferiore, ma una “non razza”) ebbero origine tutte le vicissitudini che mi appresto a raccontare, essendo riuscita nel tempo a riunire i pezzi di questo puzzle, che si iscrive in quella immensa tragedia che è la Shoah.

Mio padre, con la sorella e con i genitori, abitavano ad Ancona, dopo la promulgazione delle leggi razziali furono estromessi dalla scuola e braccati dalle SS che cercavano la loro madre, nonna Sarah.
Il racconto che segue è tratto da alcuni spezzoni di un testo della stessa zia Mimmi (Gemma Sestilli), quindi sono le sue parole che ho estrapolato, lo dico per amore di chiarezza e per non appropriarmi di cose non scritte da me direttamente.
La zia Mimmi raccontava: “Se qualcuno mi avesse detto che in quella bella casa nel centro di Ancona, dove ricevevamo parenti, amici e compagni di scuola (io avevo 17 anni, mio fratello 15) non avremmo mai più vissuto, non gli avrei creduto. Invece fu così”.
Vissero così molti mesi in fuga, prima a Sirolo, poi in una soffitta a Fermo.
Un giorno al bar l’altoparlante della radio a massimo volume, diede notizia dell’Armistizio. Si tornava a casa! La vita poteva ricominciare!
L’illusione durò poco: le ultime parole di Badoglio furono una doccia fredda: “La guerra continua”.
Si dovettero rendere conto che i tedeschi erano in casa, non più alleati ma intrisi di odio, pretendendo che le loro leggi, ideologie e sistemi fossero validi anche per loro, mentre la concezione dell’antisemitismo, e la legge di Norimberga ricadevano sulla loro testa.
Per non far cadere la famiglia nell’apatia e combattere lo sconforto, mia nonna che era la forza della famiglia, mentre mio nonno (non ebreo, anzi ateo) era caduto in piena depressione, portò dalla casa rastrellata qualche libro dell’enciclopedia, gli scacchi e le carte da gioco, per tenere il cervello impegnato e fare a gara a chi imparava più voci dell’enciclopedia.

Una sera, mentre stavano giocando a carte, si udì un colpo alla porta dell’albergo dove soggiornavano e il cameriere chiamò mia nonna Sarah dicendo che un giovane stava cercando proprio lei.
Ebbe una breve conversazione con quel ragazzo, che le consegnò qualcosa e se ne andò.
Mia nonna con fare veloce disse: “Buonanotte sono stanca”.
Nel frattempo, zia era rimasta al tavolo dove stavano giocando a carte con una contessa, simpatizzante nazifascista, che quindi andava assolutamente trattenuta per non farle intuire nulla, mentre mio nonno raggiunse la moglie.
Zia e papà salirono dopo poco e trovarono l’armadio svuotato, borse aperte sui letti, ma soprattutto lunghe e larghe cinture di tela bianca, cucite con grande inventiva e destrezza, piene di banconote.
Quel giovane era il garzone del loro parrucchiere ad Ancona che, sfidando il coprifuoco, era venuto a consegnarle un biglietto inviatole da una zia di Ancona sul quale era scritto: “Il medico dice che l’aria di Fermo fa molto male ai bambini”.
Compreso il messaggio, nonna decise che non sarebbero rimasti un minuto di più.
Era l’ottobre 1943 e riuscirono a fuggire grazie ad un compiacente autista che in un pagliaio nascondeva una Balilla.
Dopo mezz’ora le SS erano sotto casa.
Solo anni dopo, tornando in quella stanza, seppero che i tedeschi erano arrivati a loro grazie alla delazione del figlio di un gerarca fascista.
Arrivarono tra mille peripezie a Porto Recanati dove trovarono rifugio presso la casa di un amico di mio nonno, che nemmeno sapeva nonna fosse ebrea.
Per tutto il periodo della loro permanenza s’inventarono di essere profughi di Rimini e per mia nonna fu deciso (da nonno) che si sarebbe chiamata Maria. In questo modo riuscirono a salvarsi dalla deportazione.
Mio padre rimase talmente traumatizzato da ciò che visse durante la guerra che il solo sentire parlare in tedesco lo faceva finire nel panico. Come molto spesso accade, riuscì a superare le sue paure affrontandole in una strana maniera, cioè mettendosi a studiare proprio il tedesco. Lo imparò talmente bene che, durante una riunione a Francoforte qualcuno gli disse che per essere tedesco parlava molto bene l’italiano!
